Sempre più spesso, negli ultimi anni, si leggono articoli di giornale dai titoli sensazionalistici: “l’anziano in RSA non deve pagare la retta”; “la retta in RSA è gratuita”; “tutti i costi della RSA sono a carico del SSN”.

Il messaggio che traspare dalla cronaca giornalistica è che i costi della degenza in RSA non dovrebbero gravare sull’utente.

Ma è davvero così?

La cornice normativa

Per trovare risposta al quesito occorre prendere le mosse dagli albori e, in particolare, dalla Legge n. 833/1978, che ha istituito il SSN garantendo a tutti i cittadini l’accesso alla tutela della salute in condizioni di uguaglianza, sancendo a tale scopo il principio della gratuità degli interventi senza limiti di spesa e di razionalizzazione.

Entro tale cornice normativa si è inserita una norma al tempo rivoluzionaria, l’art. 30 della L. n. 730/1983, che ha posto a carico del fondo SSN gli oneri delle attività di rilievo sanitario connesse con quelle socio-assistenziali.

La Legge n. 730/83, in quanto legge finanziaria per l’anno 1984, si era posta perciò l’obiettivo, in conformità alla normativa al tempo vigente (ossia la L. n. 833/1978), di assicurare risorse finanziare per garantire l’assistenza sanitaria a tutti in modo gratuito e senza limiti.

In tale panorama si è inserito il D.P.C.M del 08.08.1985 nel quale vi è una prima definizione di attività sanitaria connessa a quella di tipo assistenziale: “Le attività di rilievo sanitario connesse con quelle socio-assistenziali di cui all’art. 30 della legge 27 dicembre 1983, n. 730, sono le attività che richiedono personale e tipologie di intervento propri dei servizi socio-assistenziali, purché siano dirette immediatamente e in via prevalente alla tutela della salute del cittadino e si estrinsechino in interventi a sostegno dell’attività sanitaria di prevenzione, cura e/o riabilitazione fisica e psichica del medesimo, in assenza dei quali l’attività sanitaria non può svolgersi o produrre effetti.

Oltre a fornire una definizione in senso positivo, il decreto si preoccupa di definire anche in senso negativo cosa debba intendersi per attività di rilievo sanitario connesse con quelle socio assistenziali escludendo che tra le prime possano annoverarsi “le attività direttamente ed esclusivamente socio-assistenziali, comunque estrinsecantisi, anche se indirettamente finalizzate alla tutela della salute del cittadino. In particolare, non rientrano tra le attività di rilievo sanitario connesse con quelle socio-assistenziali l’assistenza economica in denaro o in natura e l’assistenza domestica, le comunità alloggio, le strutture diurne socio-formative, i corsi di formazione professionale, gli interventi per l’inserimento e il reinserimento lavorativo, i centri di aggregazione e di incontro diurni, i soggiorni estivi, i ricoveri in strutture protette extra-ospedaliere meramente sostitutivi, sia pure temporaneamente, dell’assistenza familiare”.

Il medesimo decreto statuisce poi all’art. 6 che “Rientrano tra le attività socio-assistenziali di rilievo sanitario, con imputazione dei relativi oneri sul Fondo sanitario nazionale, i ricoveri in strutture protette, comunque denominate, sempre che le stesse svolgano le attività di cui all’art. 1. Le prestazioni in esse erogate devono essere dirette, in via esclusiva o prevalente: […] alla cura degli anziani, limitatamente agli stati morbosi non curabili a domicilio. Nei casi in cui non sia possibile, motivatamente, disgiungere l’intervento sanitario da quello socio-assistenziale, le regioni possono, nell’ambito delle disponibilità finanziarie assicurate dal Fondo sanitario nazionale, avvalersi mediante convenzione di istituzioni pubbliche o, in assenza, di istituzioni private. In questi casi le regioni possono prevedere che l’onere sia forfettariamente posto a carico, in misura percentuale, del Fondo sanitario nazionale o degli enti tenuti all’assistenza sociale in proporzione all’incidenza rispettivamente della tutela sanitaria e della tutela assistenziale, con eventuale partecipazione da parte dei cittadini”;

Richiamare oggi le predette disposizioni normative è errato, in quanto sono intervenute in uno specifico contesto sociale e temporale, dettando principi che, ove applicati ai nostri giorni, porterebbero al collasso dell’intero sistema sanitario italiano.

Il principio della gratuità degli interventi, infatti, ha dovuto ben presto fare i conti con la limitatezza delle risorse economiche e dei mezzi di finanziamento di un sistema teorizzato soltanto sulla carta.

La materia, pertanto, è stata oggetto di plurime pronunce della Corte Costituzionale che, approfondendo il tema del bilanciamento tra diritto alla salute e risorse finanziare disponibili, hanno reso evidente la necessità di disporre misure correttive volte a garantire, da una parte, il contenimento delle risorse e, dall’altra, il mantenimento dell’efficienza del sistema sanitario sul lungo periodo.

Sulla scorta di ciò sono state varate manovre correttive che, con i decreti nn. 502/1992 e 517/1993, hanno portato all’introduzione di sistemi di compartecipazione alla spesa sanitaria e, più in generale, al riordino del Sistema.

In particolare, le nome di interesse sono:

– l’art. 4 septies del D.Lgs. 502/1992, il quale definisce le prestazioni sociosanitarie come “tutte le attività atte a soddisfare, mediante percorsi assistenziali integrati, bisogni di salute della persona che richiedono unitariamente prestazioni sanitarie e azioni di protezione sociale in grado di garantire, anche nel lungo periodo, la continuità tra le azioni di cura e quelle di riabilitazione”;

– l’art. 1, comma 2, del D.Lgs. 502/1992, che ha rivoluzionato il sistema prevedendo che il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) assicura attraverso risorse finanziarie pubbliche, individuate ai sensi del comma 3 del medesimo articolo, i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA).

I LEA rappresentano quindi le garanzie del SSN, cioè i limiti quantitativi, qualitativi e tipologici che il servizio pubblico offre ed eroga; costituiscono, in altri termini, le prestazioni ed i servizi che la legge pone a carico di ciascuna Regione nel proprio ambito territoriale.

Successivamente l’art. 1, comma 2, del D.Lgs. 299/1999 ha stabilito che il SSN assicura «i livelli essenziali ed uniformi di assistenza definiti dal Piano sanitario nazionale nel rispetto dei principi della dignità della persona umana, del bisogno di salute, dell’equità nell’accesso all’assistenza, della qualità delle cure e della loro appropriatezza riguardo alle specifiche esigenze, nonché dell’economicità nell’impiego delle risorse»; ancora il comma 3 della norma specifica: “L’individuazione dei livelli essenziali e uniformi di assistenza assicurati dal Servizio sanitario nazionale, per il periodo di validità del Piano sanitario nazionale, è effettuata contestualmente all’individuazione delle risorse finanziarie destinate al Servizio sanitario nazionale, nel rispetto delle compatibilità finanziarie definite per l’intero sistema di finanza pubblica nel Documento di programmazione economico finanziaria”.

La disamina normativa sino ad ora compiuta consente di trarre una prima conclusione: per individuare la tipologia di prestazioni garantite dal Sistema Sanitario ad ogni cittadino ed il relativo criterio di finanziamento deve farsi riferimento ai Livelli Essenziali di Assistenza.

Deve quindi procedersi all’esame del D.P.C.M. 14.02.2001 e del successivo D.P.C.M. 29.11.2001, che hanno elencato i livelli essenziali di assistenza da garantire in modo uniforme sul territorio nazionale.

Il D.P.C.M. 14.02.2001, all’art. 2, stabilisce che le prestazioni sociosanitarie sono definite tenendo conto dei seguenti criteri: la natura del bisogno, la complessità e l’intensità dell’intervento assistenziale, nonché la sua durata.

In particolare, per quanto concerne il criterio dell’intensità assistenziale, il comma 4 dell’art. 2 prevede che l’intensità dell’intervento di cui il singolo utente necessita in base al proprio progetto personalizzato sia individuata sulla base di tre livelli:

1) fase intensiva: caratterizzata da un impegno riabilitativo specialistico di tipo diagnostico e terapeutico, di elevata complessità e di durata breve e definita;

2) fase estensiva: caratterizzata da minore intensità terapeutica, tale comunque da richiedere una presa in carico specifica, a fronte di un programma assistenziale di medio o prolungato periodo;

3) fase di lungoassistenza: finalizzata a mantenere l’autonomia funzionale possibile e a rallentare il suo deterioramento, nonché a favorire la partecipazione alla vita sociale, anche attraverso percorsi educativi.

Di norma la fase intensiva o acuta è gestita in Ospedale, con costi a totale carico del SSN; la fase estensiva dagli istituti di riabilitazione (IDR) per un massimo di 60 giorni, con costi a totale carico del SSN; mentre la fase di lungoassistenza è garantita da strutture residenziali sociosanitarie, quali le RSA.

Di particolare importanza è, inoltre, la disposizione di cui all’art. 3 del D.P.C.M. 14.02.2001 che individua e definisce le “prestazioni sanitarie a rilevanza sociale”, le “prestazioni sociali a rilevanza sanitaria” e le “prestazioni socio-sanitarie ad elevata integrazione sanitaria”, in base alla natura dei bisogni, della complessità e dell’intensità assistenziale e della durata dell’intervento, come segue:

  • prestazioni sanitarie a rilevanza sociale: “le prestazioni assistenziali che, erogate contestualmente ad adeguati interventi sociali, sono finalizzate alla promozione della salute, alla prevenzione, individuazione, rimozione e contenimento di esiti degenerativi o invalidanti di patologie congenite o acquisite, contribuendo, tenuto conto delle componenti ambientali, alla partecipazione alla vita sociale e alla espressione personale. Dette prestazioni, di competenza delle aziende unità sanitarie locali ed a carico delle stesse, sono inserite in progetti personalizzati di durata medio/lunga e sono erogate in regime ambulatoriale, domiciliare o nell’àmbito di strutture residenziali e semiresidenziali”.
  • prestazioni sociali a rilevanza sanitaria: “tutte le attività del sistema sociale che hanno l’obiettivo di supportare la persona in stato di bisogno, con problemi di disabilità o di emarginazione condizionanti lo stato di salute. Tali attività, di competenza dei comuni, sono prestate con partecipazione alla spesa, da parte dei cittadini, stabilita dai comuni stessi e si esplicano attraverso:

a) gli interventi di sostegno e promozione a favore dell’infanzia, dell’adolescenza e delle responsabilità familiari;

b) gli interventi per contrastare la povertà nei riguardi dei cittadini impossibilitati a produrre reddito per limitazioni personali o sociali;

c) gli interventi di sostegno e di aiuto domestico familiare finalizzati a favorire l’autonomia e la permanenza nel proprio domicilio di persone non autosufficienti;

d) gli interventi di ospitalità alberghiera presso strutture residenziali e semiresidenziali di adulti e anziani con limitazione dell’autonomia, non assistibili a domicilio;

e) gli interventi, anche di natura economica, atti a favorire l’inserimento sociale di soggetti affetti da disabilità o patologia psicofisica e da dipendenza, fatto salvo quanto previsto dalla normativa vigente in materia di diritto al lavoro dei disabili;

f) ogni altro intervento qualificato quale prestazione sociale a rilevanza sanitaria ed inserito tra i livelli essenziali di assistenza secondo la legislazione vigente.

Dette prestazioni, inserite in progetti personalizzati di durata non limitata, sono erogate nelle fasi estensive e di lungoassistenza”;

  • prestazioni socio-sanitarie ad elevata integrazione sanitaria: “tutte le prestazioni caratterizzate da particolare rilevanza terapeutica e intensità della componente sanitaria, le quali attengono prevalentemente alle aree materno-infantile, anziani, handicap, patologie psichiatriche e dipendenze da droga, alcool e farmaci, patologie per infezioni da H.I.V. e patologie terminali, inabilità o disabilità conseguenti a patologie cronico-degenerative. Tali prestazioni sono quelle, in particolare, attribuite alla fase post-acuta caratterizzate dall’inscindibilità del concorso di più apporti professionali sanitari e sociali nell’àmbito del processo personalizzato di assistenza, dalla indivisibilità dell’impatto congiunto degli interventi sanitari e sociali sui risultati dell’assistenza e dalla preminenza dei fattori produttivi sanitari impegnati nell’assistenza. Dette prestazioni a elevata integrazione sanitaria sono erogate dalle aziende sanitarie e sono a carico del fondo sanitario. Esse possono essere erogate in regime ambulatoriale domiciliare o nell’àmbito di strutture residenziali e semiresidenziali e sono in particolare riferite alla copertura degli aspetti del bisogno socio-sanitario inerenti le funzioni psicofisiche e la limitazione delle attività del soggetto, nelle fasi estensive e di lungoassistenza”.

Per quanto poi riguarda le modalità di finanziamento delle prestazioni sociosanitarie, la Tabella allegata al D.P.C.M. 14.02.2001 prevede che per gli anziani e per le persone non autosufficienti con patologie cronico-degenerative (come nel caso della signora Brambilla), siano garantiti la cura e il recupero funzionale tramite servizi residenziali a ciclo continuativo e diurno, compresi interventi e servizi di sollievo alla famiglia, con costi posti a carico del SSN per il 100% quanto all’assistenza in fase intensiva e alle prestazioni ad elevata integrazione erogate nella fase estensiva, e solo per il 50% quanto alle forme di lungo assistenza semiresidenziali e residenziali (tenendo come riferimento i costi riconducibili al valore medio della retta relativa ai servizi in possesso degli standard regionali o, in alternativa, il costo del personale sanitario e il 30% dei costi per l’assistenza tutelare e alberghiera), essendo il restante 50% posto a carico del Comune, fatta salva la compartecipazione da parte dell’utente prevista dalla disciplina regionale e comunale.

Fondamentale per l’individuazione dei criteri di finanziamento è altresì l’Allegato 1C al D.P.C.M. 29.11.2001, che, per ciascun livello di assistenza, individua le  prestazioni e la percentuale di costi a carico dell’utente o del Comune.

In particolare, nell’ambito dell’assistenza residenziale in favore degli anziani, prevede la compartecipazione dell’utente o del Comune al 50% dei costi delle prestazioni sia nel caso di prestazioni di cura e recupero funzionale di soggetti non autosufficienti erogate in fase intensiva ed estensiva sia nel caso di prestazioni terapeutiche, di recupero e mantenimento funzionale delle abilità per non autosufficienti erogate in regime residenziale.

Il panorama normativo così delineato deve essere completato con l’esame del D.P.C.M. 12.01.2017 (c.d. Nuovi LEA), il quale, nel definire e aggiornare i Livelli Essenziali di Assistenza, ha confermato la regolamentazione contenuta nei precedenti decreti, precisando all’art. 30 che sono a totale carico del SSN i trattamenti di cui alla lettera a):

“a) trattamenti estensivi di cura e recupero funzionale a persone non autosufficienti con patologie che, pur non presentando particolari criticità e sintomi complessi, richiedono elevata tutela sanitaria con continuità assistenziale e presenza infermieristica sulle 24 ore. I trattamenti, erogati mediante l’impiego di metodi e strumenti basati sulle più avanzate evidenze scientifiche, sono costituiti da prestazioni professionali di tipo medico, infermieristico, riabilitativo e di riorientamento in ambiente protesico, e tutelare, accertamenti diagnostici, assistenza farmaceutica, fornitura dei preparati per nutrizione artificiale e dei dispositivi medici di cui agli articoli 11 e 17, educazione terapeutica al paziente e al caregiver. La durata del trattamento estensivo, di norma non superiore a sessanta giorni, è fissata in base alle condizioni dell’assistito che sono oggetto di specifica valutazione multidimensionale, da effettuarsi secondo le modalità definite dalla regioni e dalle province autonome;”.

Sono invece a carico del SSN nella sola misura del 50% della tariffa giornaliera, restando la rimanente quota a carico dell’utente o del Comune, i trattamenti di cui alla lettera b), ossia: “b) trattamenti di lungoassistenza, recupero e mantenimento funzionale, ivi compresi interventi di sollievo per chi assicura le cure, a persone non autosufficienti. I trattamenti sono costituiti da prestazioni professionali di tipo medico, infermieristico, riabilitativo e di riorientamento in ambiente protesico, e tutelare, accertamenti diagnostici, assistenza farmaceutica e fornitura dei preparati per nutrizione artificiale e dei dispositivi medici di cui agli articoli 11 e 17, educazione terapeutica al paziente e al caregiver, con garanzia di continuità assistenziale, e da attività di socializzazione e animazione”.

In altri termini, il D.P.C.M. 12.01.2017 ha stabilito che le prestazioni erogate in regime residenziale in favore di anziani sono al 100% a carico del SSN soltanto quando si tratti di trattamenti estensivi richiedenti un’elevata tutela sanitaria da garantirsi in un arco temporale limitato, di norma non superiore a 60 giorni. Quando invece il trattamento è di lungoassistenza e, quindi, è garantito nel lungo periodo, la quota a carico del SSN è limitata al 50%.

Il quadro normativo di riferimento così delineato a livello nazionale deve essere integrato con la legislazione regionale. Regione Lombardia al punto 6.11.3 della D.G.R. 1046/17.12.2018 (Regole di sistema per l’anno 2019), richiamata la normativa vigente, ha inequivocabilmente chiarito che “le persone affette da Alzheimer o da altre forme di demenza ricoverate in RSA la cui tipologia di ricovero, per durata e per tipo di prestazioni, risulta riconducibile al regime di lungo assistenza sociosanitaria, rientrano nella tipologia di persone non autosufficienti per le quali l’onere del ricovero non grava interamente sul FSR. È prevista pertanto la compartecipazione al costo del servizio da parte della persona ricoverata nella misura del 50% in conformità al principio di cui al DPCM 29.11.2001 secondo la percentuale stabilita nell’allegato 1C, punto 10, lettera b)”.

Da quanto precede si evince che Regione Lombardia ha ritenuto le RSA l’unità di offerta idonea per rispondere ai bisogni degli anziani non autosufficienti, con la conseguenza che le previsioni relative al finanziamento del servizio si applicano anche alle prestazioni in favore di questa tipologia di utenti.

In particolare, il Legislatore ha ritenuto che il ricovero in strutture residenziali di tali soggetti non necessiti di un particolare regime assistenziale di natura sanitaria, ma che questi pazienti abbiano bisogno di cicli rieducativi e visite di controllo aggiuntive rispetto ai non autosufficienti “tipici”.

Tali conclusioni trovano conforto nel dato normativo e in particolare, da ultimo, nella citata D.G.R. 1046/17.12.2018 (Regole di sistema per l’anno 2019) che inequivocabilmente qualifica le prestazioni erogate in RSA come “prestazioni sociali a rilevanza sanitaria”; ancora, la natura del regime di tutela garantito si evince dalla stessa definizione di RSA di cui al DPR 14 gennaio 1997: “presidi che offrono a soggetti non autosufficienti, anziani e non, con esiti di patologie, fisiche, psichiche, sensoriali o miste, non curabili a domicilio, un livello medio di assistenza medica, infermieristica e riabilitativa, accompagnata da un livello alto di assistenza tutelare e alberghiera, modulate in base al modello assistenziale adottato dalle regioni e province autonome”.

Una precisa ed approfondita indagine del panorama normativo porta a escludere qualsivoglia automatismo nel riconoscimento della gratuità delle prestazioni erogate in RSA.

Del resto, una diversa conclusione condurrebbe all’inevitabile collasso del sistema sociosanitario così come ideato e operante in concreto ai nostri giorni: sistema che non si basa più sul principio della gratuità delle prestazioni, ma che prevede il riconoscimento da parte del SSR del rimborso della sola tariffa ovvero della quota del 50% dei costi sanitari, restando a carico del singolo utente (salva l’eventuale compartecipazione del Comune in caso di sussistenza dei requisiti ISEE) il pagamento della rimanente quota alberghiera-assistenziale.

Se tale è la normativa e la concreta modalità di funzionamento del sistema, come si è arrivati a prospettare che i costi della degenza in RSA non debbano gravare sull’utente nemmeno nella misura del 50%?

Il quadro giurisprudenziale

Si è enfatizzato l’esito di alcune pronunce giurisprudenziali che, da provvedimenti regolatori del caso specifico sono divenuti baluardi per tutti gli utenti delle RSA.

In verità nel corso degli anni, sino ad arrivare alle più recenti sentenze della Corte di Cassazione, si è delineato un quadro giurisprudenziale assolutamente conforme all’impianto normativo esistente.

La giurisprudenza chiamata a pronunciarsi sulla tipologia di prestazioni erogate in RSA ai pazienti anziani affetti da patologie cronico-degenerative e sul relativo criterio di finanziamento ha, infatti, ampiamente riconosciuto che i bisogni dei soggetti anziani non autosufficienti, ivi compresi quelli affetti dal Morbo di Alzheimer, hanno natura prevalentemente assistenziale e richiedono un intervento che si colloca nella fase di lungoassistenza. Tale condizione, infatti, non risulta tipicamente caratterizzata dal succedersi di una fase cauta e post-acuta, ma dalla progressiva ingravescenza dell’infermità incidente sulle funzioni cognitive del malato. Considerato, inoltre, che le RSA rappresentano la collazione residenziale dell’anziano non autosufficiente quando non può più essere assistito al domicilio e non presenta patologie acute o necessità riabilitative tali da richiedere il ricovero ospedaliero, è stato ritenuto appropriato il ricovero dell’anziano, anche del malato di Alzheimer, presso le RSA e corretta la compartecipazione dello stesso ai costi del servizio nella misura del 50% secondo la percentuale stabilita nell’allegato 1C (ex plurimis, Consiglio di Stato n. 2046/2015; Trib. Milano n. 1003/2016; Corte d’Appello di Milano n. 631/2023).

In plurime occasioni, inoltre, è stato specificato che nessuna particolare fragilità dell’ospite può giustificare una copertura del SSN al costo della retta diversa da quanto normativamente previsto dall’allegato 1C al D.P.C.M. 29.11.2001 (Trib. Milano n. 11516/2018; Corte d’Appello di Milano n. 1401/2019).

Si è infatti detto che, in presenza di patologie di rilevante gravità e connotate dalla cronicità della malattia, non vige il principio della gratuità assoluta di tutte le prestazioni rese nei confronti dei pazienti, anche quando a quelle socio assistenziali si aggiungano prestazioni di natura sanitaria, ma è prevista la compartecipazione dell’interessato nella c.d. fase di lungo assistenza, che si caratterizza per una minore intensità della tutela sanitaria rispetto a quella assistenziale e per una durata non preventivabile ed inquadrabile in un arco di tempo definito (Corte d’Appello di Milano n. 631/2023; Trib. Busto Arsizio n. 149/2021).

Anche la Corte di Cassazione ha ricondotto le prestazioni sanitarie integrate inscindibilmente alle prestazioni socio-assistenziali in regime residenziale nell’ambito del sistema di compartecipazione di cui all’allegato 1C al D.P.C.M. 29/11/2001 (Cass. Civ., sent. 18.11.2017, n. 28321).

Non meno rilevante l’interpretazione offerta dal Consiglio di Stato, secondo cui, nel caso di malattie cronico-degenerative di un soggetto anziano, non suscettibili di regressione ma comportanti una fase di lungo assistenza, nella quale la componente sanitaria e quella sociale non risultino operativamente distinguibili, occorre applicare la ripartizione forfettaria degli oneri (allegato 1C al D.P.C.M. 29.11.2001) proprio perché la definizione, potenzialmente omnicomprensiva, delle prestazioni sanitarie (a rilevanza sociale) contenuta nell’art. 3, comma 1, del D.P.C.M. 14.02.2001, costituisce previsione generale, che però deve essere integrata da quelle riguardanti le singole tipologie di prestazioni e la ripartizione degli oneri, nei casi in cui vi sia coesistenza con le prestazioni sociali (a rilevanza sanitaria), quest’ultime considerate, con formulazione altrettanto ampia, al comma 2 del medesimo DPCM 14.2.2001 (Cons. Stato n. 2046/2015).

Sempre il Consiglio di Stato (n. 1858 del 21.03.2019), sui ricorsi promossi da alcune associazioni nei confronti del D.P.C.M. 12.01.2017 (Nuovi LEA), ha evidenziato che tale decreto si pone in linea di continuità con il sistema delineato dai precedenti D.P.C.M. nella parte in cui si prevede che i trattamenti di lungo assistenza in regime residenziale siano a carico del SSN per la quota del 50% e che la suddivisione del progetto assistenziale in fasi di diversa intensità con impegno decrescente (ovvero intensiva, estensiva e lungo-assistenza) presuppone che le prime due fasi rimangano circoscritte a periodi definiti, ovvero nel primo caso ad una durata breve e definita e nel secondo caso ad un medio o prolungato periodo, ma sempre definito.

Se è vero che in tale pronuncia si è ritenuto che la durata di ciascuna delle suddette fasi non possa essere ancorata a previsione rigide che modifichino in via automatica il livello di intensità assistenziale in atto, dovendo la stima essere effettuata sulla scorta delle effettive condizioni dell’assistito e sulla scorta di una specifica valutazione multidimensionale, è pur vero che risulta confermata la validità dell’impostazione sottesa ai suddetti DPCM e quindi la legittimità della previsione di una quota di compartecipazione a carico dell’assistito per le prestazioni di carattere socio-sanitario erogate nella fase di lungo assistenza.

Peraltro, uno dei punti del decreto oggetto di impugnazione davanti al giudice amministrativo riguardava la previsione della totale gratuità di prestazioni sanitarie di cura di alimentazione e idratazione artificiale soltanto per un periodo di tempo determinato, decorso il quale viene stabilita la compartecipazione economica del Comune/utente.

Con riferimento a tale aspetto, il Consiglio di Stato ha affermato che la previsione di un limite temporale della durata del trattamento non è cogente, data la presenza della indicazione “di norma”, il che esclude l’esistenza di ogni paventato automatismo della durata del trattamento e quindi la prospettata illegittimità di tale previsione del decreto.

Ne deriva quindi che, anche alla luce di tale pronuncia, la valenza sanitaria di alcune prestazioni non esclude automaticamente la possibilità di prevedere una compartecipazione alla spesa, dovendosi considerare, oltre a tipologia delle prestazioni, la finalità, la durata ed il quadro clinico dell’assistito nel quale si inseriscono, al fine di individuare la maggiore o minore intensità della componente sanitaria delle stesse.

La giurisprudenza dominante qualifica, dunque, le prestazioni erogate in RSA in favore di anziani non autosufficienti come “prestazioni sociali a rilevanza sanitaria”, erogate nella fase di lungo-assistenza, i cui costi sono ripartiti a metà tra il SSR e l’utente/Comune.

Omettendo richiami alla significativa giurisprudenza formatasi negli anni, coloro che sostengono l’assenza di costi in capo all’utente ricoverato in RSA invocano i più recenti approdi della Corte di Cassazione che, talvolta scevri di una puntuale analisi del contesto normativo, ma comunque lungi dall’affermare il principio generale della gratuità delle prestazioni, aprono la strada alla possibilità di riconoscere – nel singolo caso concreto – l’esclusiva competenza economica del SSR.

Sancisce, infatti, la Suprema Corte nella sentenza n. 25660 del 04.09.2023 che le prestazioni socio-assistenziali di rilievo sanitario sono incluse in quelle a carico del SSN laddove risulti, in base ad una valutazione in concreto, che per il singolo paziente ‒ in relazione alla patologia dalla quale è affetto, allo stato di evoluzione al momento del ricovero e alla prevedibile evoluzione successiva della suddetta malattia ‒ siano necessarie, per assicurargli la tutela del suo diritto soggettivo alla salute e alle cure, prestazioni di natura sanitaria che non possono essere eseguite se non congiuntamente alla attività di natura socio-assistenziale, la quale è pertanto avvinta alle prime da un nesso di strumentalità necessaria.

In sostanza, questa Corte ha ravvisato nella “individuazione di un trattamento terapeutico personalizzato” (e, dunque, non connotato da occasionalità) il discrimen per ritenere la prestazione socio-assistenziale “inscindibilmente connessa” a quella sanitaria e, quindi, soggetta al regime di gratuità propria di quest’ultima (Cassazione civile sez. III – 18/05/2023, n. 13714).

Secondo la giurisprudenza di legittimità, a rilevare non è il fatto che il piano fosse stato previsto, ma che fosse dovuto e che quindi sussistesse la necessità, per il paziente, in relazione alla patologia della quale risultava affetto, dello stato di evoluzione al momento del ricovero e della prevedibile evoluzione successiva della suddetta malattia, di un trattamento sanitario strettamente e inscindibilmente correlato con l’aspetto assistenziale perché volto, attraverso le cure, a rallentare l’evoluzione della malattia e a contenere la sua degenerazione, per gli stati più avanzati, in comportamenti autolesionistici o potenzialmente dannosi per i terzi.

La retta è dunque gratuita?

La giurisprudenza invocata dai media e dai sostenitori della gratuità della retta di degenza non sancisce, invero, alcun automatismo nel porre a capo del SSR l’integralità dei costi del ricovero in RSA. L’esame del caso concreto, anche mediante l’esperimento di una CTU (Consulenza Tecnica d’Ufficio), è imprescindibile per consentire al Giudice di determinare, nello specifico caso sottoposto al suo esame, se il paziente necessitasse dell’elaborazione di un piano terapeutico sanitario, avendo un bisogno sanitario così elevato da non poter essere scisso dalla presa in carico puramente assistenziale.

Il generico concetto di “piano terapeutico personalizzato”, che non trova conforto nel dato normativo, rischia, d’altra parte, di condurre a disuguaglianze applicative fondate sull’interpretazione del singolo giudicante, che si scontrano peraltro con l’interpretazione della normativa sociosanitaria fatta propria dalle Regioni che, di fatto, non assumono a proprio integrale carico i costi della degenza in RSA, adottando in tale unità d’offerta il criterio della ripartizione dei costi nei limiti del budget stanziato.

L’evoluzione giurisprudenziale deve dunque portare, inevitabilmente, a riflettere sull’evoluzione del sistema sociosanitario che, ove non venga ripensata e chiarita prima di tutto a livello normativo, rischia di condurre al collasso delle RSA, le quali, a causa di pronunce giurisprudenziali contrastati con il concreto funzionamento del sistema, in assenza di un intervento legislativo riformatore, rischiano di doversi sobbarcare i costi delle prestazioni erogate, che non vengono rimborsati né dall’utente né dalle Regioni, in un contesto già di difficile sostentamento economico a causa dell’inflazione e del rincaro delle materie degli ultimi anni.